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Intervista con Dave Matthews

di Elena Pizzetti

15 minuti con Dave Matthews. Prima, durante e dopo l'intervista

Milano, 22 febbraio. Sono su un taxi in direzione PalaSharp, dove la Dave Matthews Band suonerà per la prima delle tre date italiane del tour 2010. Nella mia borsa, insieme al biglietto, registratore e un plico di fogli: prima del concerto intervisterò Dave Matthews per la rivista musicale Buscadero.
Arrivo al PalaSharp con un po' di anticipo e accompagno Corsina alla ricerca del tour director.
Pioviggina e fa freddissimo dentro la giacchetta primaverile che ho ottimisticamente portato a Milano. Un sorridente ragazzo dai lunghi ricci castani esce dal container del catering e ci chiede se abbiamo bisogno di qualcosa. Corsina gli spiega che deve incontrare G. e lui si offre di andare a cercarlo. Scompare nell'enorme cupola grigia del palazzetto e ne esce pochi minuti dopo dicendo che l'ha fatto chiamare via ricetrasmittente e sta arrivando. La sera, durante l'opening act, ritroveremo il nostro gentile aiutante sul palco: non si trattava di un membro della crew bensì di Terry Wolfers, bassista degli Alberta Cross.
Un'altra breve, gelida attesa e finalmente G. sbuca da una porticina. Corsina entra con lui e io li saluto perché mancano dieci minuti all'appuntamento con gli addetti della Warner. Raggiungo la cassa accrediti e insieme agli altri giornalisti vengo scortata all'interno del palazzetto. Dagli spalti ancora deserti assisto all'impetuoso ingresso dell'ondata di Con-Fusion, che si riversa a ridosso delle transenne. Uno dei giornalisti di fianco a me commenta: 'ma questi chi sono, sono stranieri?' Forse non ci si aspetterebbe un tale copioso entusiasmo da parte dei fan italiani.
Ci viene comunicato che le interviste si faranno nel camerino di Dave. Appena finiranno le TV toccherà a me. Avrò a disposizione 15 minuti per un incontro face to face.

Vengo accompagnata nel backstage e aspetto una decina di minuti in uno stretto corridoio, lungo cui aleggia il suono del sax di Jeff Coffin che sta provando dietro una delle numerose porte. Arriva Carter sfoggiando i suoi trentadue denti smaglianti e un paio di enormi cuffie. Poco dopo esce Jeff, sax al collo; si affaccia all'interno del palazzetto, scambia due parole con un membro della crew e si incammina nuovamente verso il suo camerino. Passando incrocia il mio sguardo e mi rivolge un 'Hi!' e un sorriso che rimbalzano sulla mia bocca in modo contagioso. L'atmosfera è permeata di good vibes. Una porta sulla sinistra si apre e il ragazzo che mi accompagna mi fa cenno di seguirlo. Escono i giornalisti di La7 con la loro ingombrante attrezzatura ed entro io.

Dave è in piedi al centro del camerino e la prima cosa che mi colpisce è la sua immensità. Non si tratta solo della sua altezza e della sua imponenza, è qualcosa di più: un'intangibile emanazione che lo fa percepire ancora più grande, come se la sua presenza si espandesse, oltre i confini fisici, in tutta la stanza. Mi viene incontro e mi accoglie con un sorriso mentre i suoi occhi, più che guardare, mi scrutano in modo tutt'altro che fastidioso. Un collaboratore mi chiede il nome del 'mio' giornale e quando rispondo 'Buscadero' dice a Dave 'eravate sulla copertina di questa rivista il mese scorso'. Gli consegno subito la copia del numero di febbraio con la traduzione in inglese di Benedetta Copeta e Carla Melis. Dave indica la fotografia facendo una battuta sui tremendi capelli che aveva quel giorno e scoppiamo a ridere. Mi chiede come mi chiamo e quando rispondo 'Elena' lui ripete con aria interrogativa 'Eléééna?' Lo correggo in tono scherzosamente arrabbiato: 'No, Èlena!' Ritenta: 'Eléééna!' Ormai è una questione di principio per me: 'No, Èèèlena!' Finalmente lo pronuncia in modo corretto e quando mi congratulo con un caloroso 'Yeah!!' ripete a raffica 'Èèèlena! Èèèlena!' con un pathos esagerato, accompagnato dalla sua gestualità pantomimica. È un inizio decisamente buffo, non potevo chiedere di meglio.
Si siede sul divano; di fronte ci sono due poltrone al di là di un tavolino zeppo di fogli. Gli chiedo dove posso sedermi mentre mi avvicino a una delle due poltrone, ma lui dà due pacche sul divano e mi dice 'qui, qui!'. Mi siedo accanto a lui e mentre sistemo il registratore e l'intervista sul tavolino gli chiedo come sta e se è contento di essere di nuovo in Italia. Lo è, e molto. Prima di iniziare gli spiego che oltre ad essere l'intervistatrice per il Buscadero faccio anche parte di Con-Fusion. Lui annuisce sorridendo: 'Oh, nice!' Lancio un'occhiata ai suoi fogli: sono pieni di disegni e scarabocchi. Su di uno sta abbozzando la setlist del concerto. Gli chiedo se vuole ancora un attimo o se possiamo iniziare e si solleva immediatamente dal foglio esclamando 'No, no!! Comincia!!' come se non ci fosse neanche da chiedere.

Dave ascolta le mie domande fissandomi con un'espressione che sembra voler dire 'ma cosa stai dicendo?'. Invece si tratta della sua tipica faccia in modalità-massima-attenzione. Quando gli faccio la domanda sulla recitazione di colpo mi fissa sollevando il sopracciglio, tanto che mi fermo un attimo guardandolo con aria interrogativa per capire se ho detto qualcosa di sbagliato. Lui si rende conto di avere un'espressione ambigua, perché riabbassa subito il sopracciglio e si distende dicendomi 'sì-sì-sì continua!'.
Alla fine di ogni domanda, il suo magnetico silenzio si trasforma in una cascata di parole, accompagnata da un fitto gesticolare. Risponde con un trasporto e un'energia che racchiudono tutta la sua serietà e disponibilità. Ogni tanto, di colpo, si ferma a riflettere cercando le parole giuste: attimi sospesi in cui il suo sguardo si perde lontano e mi viene quasi da trattenere il respiro per non disturbare con il minimo rumore la sua concentrazione. In un paio di occasioni, prima di cominciare a parlare, traccia scarabocchi su un foglio finché dalla sua biro prende forma la parola chiave della sua risposta.
Ho in borsa una penna, ma rinuncio subito a prendere appunti: il registratore farà il suo lavoro e non voglio intaccare l'atmosfera che si è creata, a metà strada tra un'intervista e una lunga chiacchierata. Mi sembrerebbe fuori luogo fissare un foglio mentre mi parla. E poi dopo aver ottenuto l'intervista 'face to face' stare faccia a faccia con lui mi sembra il minimo! Essere lì su quel divano mi sembra la cosa più naturale del mondo, è come se ci fossimo già incontrati tante volte prima.
Nell'articolo riporto solo domanda-risposta, ma durante le sue risposte e tra una domanda e l'altra ci sono molti scambi di battute. Quando parliamo dell'artwork di Big Whiskey non posso non fargli i complimenti per quel capolavoro. Mentre parla di LeRoi gli ricordo la bellissima frase tratta dal documentario di Sam Erickson in cui si dice che quando suonava dava l'impressione di essere da un'altra parte, e da questo spunto inizia il suo bellissimo confronto tra Roi e Jeff. Alla parola 'Lucca' esplode il suo entusiasmo, non mi lascia neanche finire la domanda e inizia a ricordare quella 'great night'. Gli dico che è stato il concerto più lungo della storia della Dave Matthews Band e si fa attento e stupito perché non ne aveva idea. Nelle interviste successive, su Rockol e Radio Due ad esempio, sarà lui a dirlo agli intervistatori rispondendo alla domanda di rito sull'epico concerto.
I minuti volano e quando mi viene comunicato che mancano due minuti ho ancora tantissime domande in scaletta. Ne scelgo tre, tra cui una fortemente voluta dal giornale e due che tocchino argomenti diversi, per riuscire a mantenere, nonostante il ristretto numero di domande, la varietà che avevo cercato di creare all'interno dell'intervista. La gentilezza di Dave non ha limiti: osservando il foglio con le domande rimaste mi chiede scusa per le lunghe risposte che ha dato. Finita l'intervista si alza per ringraziarmi e dirmi che è stato un grande piacere conoscermi. Va tutto al contrario o sbaglio?
Chiedo se posso fare un paio di foto per il giornale. Nonostante il tempo sia scaduto e varie persone stiano entrando nel camerino per preparare l'intervista successiva, tutti sono molto disponibili e mi lasciano ancora un minuto. Il tempo per due scatti a Dave e per una foto insieme ed esco in fretta per non sforare sui tempi.

Sugli spalti del PalaSharp ripenso all'intervista, ai dieci membri di Con-Fusion che proprio in quel momento stanno partecipando al meet & greet con Dave, ai tanti altri che lungo la settimana avranno la possibilità di incontrarlo salutarlo, regalargli le proprie creazioni, vederlo suonare a pochi metri. I giorni successivi sono stracolmi dei ricordi della giornata milanese, ma sono anche tempestati dai racconti di chi ha assistito alle date di Roma e Padova, che sembrano essere una continua escalation. Che fare? Semplice, andare a Londra il 6 marzo.

Nel giro di un paio di giorni organizzo tutto e sabato mattina mi trovo catapultata all'aeroporto di Luton, dove vengo rapita da Corsina su un taxi color melanzana che ci porta Londra. Alla guida, un tassista indiano dall'inglese incomprensibile, che vuole essere assolutamente sicuro che capiamo dove si trovano i magazzini Harrod's.
Dopo esserci trovati con gli altri amici italiani ci dirigiamo alla O2 Arena, dove riceviamo i pass per il backstage. Oltre a quelli per Corsina e Benedetta ce n'è un terzo per me: con un po' di fortuna saluterò di nuovo Dave. Andiamo nel backstage, dove Corsina saluta J. e gli spiega che vorrebbe presentarmi al tour director. Rimaniamo ad aspettare che G. si liberi e vedo con la coda dell'occhio un'inconfondibile figura uscire da una porta: è Dave, un po' stanco e assonnato, che ci viene a salutare. Mi riconosce, cosa che non mi aspettavo anche se sono passati pochi giorni da Milano. Ci chiede come stiamo, distribuisce baci sulle guance mie e di Benedetta e vedo Corsina scomparire dietro di lui avviluppata in un abbraccio. Sono contenta di incontrarlo in una situazione più informale rispetto a quella di Milano: lì, anche se l'atmosfera era tutt'altro che tesa, eravamo comunque calati nelle parti di intervistatrice e intervistato. Qui siamo solo Èèèlena e Dave.
Corsina gli regala una copia di Scratch my back di Peter Gabriel e gli chiediamo come mai non abbia preso parte al progetto, dal momento che Gabriel voleva contattarlo. Risponde stupito che non ne sapeva niente. Facciamo qualche battuta sul fatto che forse Peter si è dimenticato di chiamarlo e io chiedo a Dave se la sua segreteria telefonica funziona. Risponde di sì sorridendo, mentre J. ride di gusto. Un po' disorientato, alla fine Dave ci chiede 'ma quindi non ci sono in questo cd giusto?' 'no…' 'ok.'
Lo salutiamo e rinunciamo a incontrare G. Mentre camminiamo lungo il corridoio ci passa a fianco Tim Reynolds, che con fare galante ci tiene aperta la porta invitandoci a passare prima di lui e sorridendo ci chiede 'Come state oggi?'. Nei minuti passati nel backstage tra Milano e Londra non ricordo di aver avvertito neanche per un attimo, da parte di nessuno, una sensazione che non fosse di gentilezza, rilassatezza e simpatia. Mentre usciamo penso a quanto sia buffo che alla fine non siamo riuscite a salutare G., ma abbiamo casualmente incontrato Dave e Tim.
Rientriamo nel parterre e io e Benedetta ci posizioniamo in prima fila. Ci circonda un variegato gruppetto di fan provenienti da Canada, Germania e Inghilterra. Vedendo i pass che abbiamo al collo ci chiedono come li abbiamo avuti e ascoltano interessati mentre gli spieghiamo cos'è Con-Fusion e raccontiamo delle iniziative organizzate grazie al prezioso lavoro dello staff. Di fianco al palco compare Corsina, che viene a presentarci Rodrigo Simas, il webmaster di DMBrasil. Purtroppo non abbiamo modo di chiacchierare, ma il brevissimo incontro è sufficiente per confermare a pelle la splendida persona che è.

Poco dopo, a un paio di metri dal nostro naso, Dave e colleghi fanno esplodere il miglior concerto della DMB a cui io ho assistito. Prima del concerto fantasticavo di andare alla data di Manchester il giorno dopo; a fine serata, sull'ennesimo taxi che ci porta verso Victoria Station, non ne sento più il minimo bisogno. Ci sono i bei concerti, quelli che ti lasciano la sensazione di volerne subito ancora. E poi ci sono eventi irripetibili che ti fanno sentire appagato per un anno intero. Nella mia testa, però, ronza la domanda che tutti noi non riusciamo a trattenere: ma quando tornano?

L'intervista

È il 22 febbraio 2010. Sono passati otto mesi dall'uscita di Big Whiskey & the GrooGrux King e sette dal già storico concerto di Lucca, immortalato nei tre cd del cofanetto Europe 2009, e la Dave Matthews Band è di nuovo in Italia, pronta a riversare il suo caleidoscopico fiume sonoro sui palchi di Milano, Roma e Padova.
Incontro Dave Matthews prima del concerto al PalaSharp di Milano per parlare dell'ultimo disco, della scomparsa del sassofonista LeRoi Moore, della sinergia ritrovata dalla band e delle sue passioni trasversali. La sua fama di anti-star è subito confermata: mi accoglie nel camerino come farebbe un vicino di casa e ripete il mio nome tre volte finché riesce con orgoglio a mettere l'accento sulla e giusta. Gli regalo una copia del Buscadero di febbraio e indicando la foto in copertina esclama ridendo "Avevo dei capelli terribili quel giorno!". Quando gli chiedo se è contento di essere di nuovo in Italia risponde con uno "Yeah!" così entusiasta che non sembra proprio una risposta di circostanza. Il tavolino è costellato di fogli che ospitano elenchi di canzoni, schizzi e disegni; la sua biro traccerà innumerevoli scarabocchi durante tutta l'intervista. Aggiunge due titoli alla bozza della setlist e iniziamo. Le sue risposte alternano torrenziali flussi di coscienza e lunghe pause riflessive in cui il suo sguardo si incanta sul soffitto in cerca delle parole. In sottofondo, il sax di Jeff Coffin che prova nella stanza accanto.

Rispetto ai precedenti Everyday e Stand Up, Big Whiskey ha un suono e un groove più simili ai vostri primi tre dischi. È nato in un momento molto critico per la band, ma siete riusciti a ritrovare una grande sintonia. Si può considerare una rinascita?
È stata sicuramente una rinascita. Abbiamo attraversato anni davvero difficili, ma penso sia normale quando si lavora insieme. Everyday è nato dal mio lavoro con il produttore, per Stand Up tutta la band ha lavorato con il produttore, ma senza quella coesione che c'era ai tempi dei primi dischi. C'era molta passione nei primi due (Under the table and dreaming e Crash, ndr). Realizzare il terzo (Before these crowded streets) è stato più difficile ma abbiamo lottato per andare fino in fondo. Lavorare insieme all'album successivo è risultato impossibile, così abbiamo lasciato perdere e abbiamo tentato una strada completamente nuova. Mi piacciono Everyday e Stand Up, ma sono una cosa a parte. Per realizzare Big Whiskey ci siamo addentrati in una riscoperta reciproca. La band era sul punto di sciogliersi e c'erano due possibilità: mollare o unire le forze. Penso che l'album sia il risultato di questo riavvicinamento. Non si tratta solo di un ritorno a qualcosa, ma in un certo senso è il proseguimento della strada tracciata da quei primi tre dischi. Appartiene a tutti noi, ho lavorato duramente per questo album e ho preteso lo stesso dagli altri.

L'importanza di questo disco emerge anche dalla cura che hai messo nella realizzazione della copertina e del booklet, che hai interamente disegnato e scritto a mano. Hai realizzato anche la copertina di Pizza Box di Danny Barnes. È una cosa che ripeterai?
Forse sì, se avrò in mano qualcosa di valido. Big Whiskey è nato dalla combinazione di tante circostanze fortunate e di molte altre sfortunate. Avevo visto alcune proposte per la copertina e non me ne piaceva nessuna, così ho detto "la faccio io!". È stato anche Rob Cavallo (il produttore del disco, ndr), discutendo dei possibili artwork, a dirmi "ti vedo scarabocchiare in continuazione, dovresti disegnarla tu". Non ho dovuto pensarci a tavolino, è nato tutto in modo spontaneo. Per prima cosa ho disegnato un volto. Non era mia intenzione che raffigurasse LeRoi, ma in effetti gli assomigliava molto. Anche per il nome è stato così. Tutte queste cose si sono combinate in un modo che può sembrare calcolato, ma penso che tutto sia stato fortuito.

L'album si apre e si chiude con il suono del sax di LeRoi Moore. Nel documentario The Road to Big Whiskey di Sam Erickson ci sono altre sue registrazioni inedite: pensi che continuerete a inserire simili estratti nei prossimi dischi?
Non lo so. Potrebbe essere una strada interessante, una connessione che potremmo instaurare tra questo disco e il prossimo. Ci abbiamo pensato. Però dovrebbe essere una cosa naturale, non forzata. Abbiamo suonato così tanta musica eccezionale insieme a Roi. Vorrei trovare ancora ispirazione nelle sue registrazioni di questi anni e non escludo che lo faremo, ma non è un piano stabilito.

Che cosa di LeRoi non sarà mai sostituibile? E cosa ha aggiunto Jeff Coffin alla band?
Quando Jeff si è unito a noi non avevamo idea che Roi sarebbe morto. L'intenzione era di lavorare con lui solo per un po'. Quando Roi è morto - abbiamo fatto un concerto quella sera - ci è sembrato naturale che Jeff continuasse a lavorare con noi se ne avesse avuta la possibilità, e così è stato. Non c'è stato modo di rimpiazzare la voce di Roi, perché era unica. Non era una persona facile, aveva un carattere particolare, ma c'era qualcosa di magico in lui. Jeff è una persona totalmente diversa, l'unica cosa che hanno in comune è il sassofono. Per il resto il loro approccio alla musica è opposto. Roi era molto introverso e introspettivo, ed esprimeva questo con il sax. Jeff è molto aperto, estroverso. È come se suonassero due strumenti diversi.

Di recente Steve Lillywhite (produttore della DMB dal 1994 al 2000) ha dichiarato che gli piacerebbe lavorare di nuovo con voi. Ci sono possibilità che accada?
Assolutamente sì! Non sapevo di questa dichiarazione ma so che Coran (Capshaw, manager della DMB, ndr) è in contatto con lui. Quando abbiamo smesso di lavorare insieme non era semplicemente il momento giusto, ma ho trascorso uno dei più bei periodi della mia vita con lui e penso che sarebbe grandioso lavorare di nuovo insieme. Vedremo cosa succederà. Adoro anche lavorare con Rob Cavallo, anche a lui piace produrre splendidi suoni. Forse potremo fare entrambe le cose.

Avete molto materiale inedito. Nella deluxe edition di Supernatural di Santana è stata inserita Rain Down on Me, scritta da te e Carter Beauford; suonate dal vivo brani come Sister e Shotgun. Avete mai pensato di pubblicare una raccolta di outtakes?
Ho uno strano modo di vedere la musica. Voglio solo guardare avanti e a volte qualcuno se la prende perché non voglio più suonare una certa cosa. Alcune canzoni tra il vecchio materiale mi piacciono tantissimo, restano con me, altre se ne vanno per anni e magari ritornano, altre ancora semplicemente non mi piacciono più. Si instaura una relazione soggettiva. Il mio manager spesso mi dice "dovresti fare un disco con tutta questa roba". Qualcuno della band sarebbe d'accordo, penso che a Stefan piacerebbe molto. Ma poi bisogna trovare il tempo e allora mi rendo conto che voglio solo lavorare a un disco nuovo. Comunque raccogliere tutte quelle registrazioni in un set di outtakes è una bella idea. Forse lo faremo prima o poi.

Hai anche una lunga carriera nel mondo del cinema. Sono in lavorazione The Other Side, In The Woods e The Pretend Wife con Adam Sandler. Cosa ti offre la recitazione rispetto alla musica?
Sono due cose molto diverse. Mi piace lavorare con Adam Sandler perché siamo amici e ci divertiamo tantissimo insieme, ma un giorno mi piacerebbe fare qualcosa di rilievo. La recitazione è un'esperienza diversa, un differente modo di esprimersi, un altro canale di sfogo. È bello esprimere diversi aspetti della propria personalità, in qualsiasi modo lo si faccia. Io tendo a farlo davanti alle persone, in un modo o nell'altro.

In un'intervista dei primi anni novanta hai definito il suono della DMB "con-fusion", termine che tra l'altro ha dato il nome al fan club italiano. Se dovessi definire in una parola la musica della band oggi, quale sarebbe?
(Prima di rispondere scrive su un foglio le parole JOY e HONEST, ndr) Forse "gioia". Qualcosa tra "gioia" e "onestà". Questo è quello che tento di - che voglio - essere: voglio essere onesto. Ma penso sia la gioia a essere contagiosa. Ci divertiamo tantissimo quando suoniamo. È come lanciarsi su un binario interrotto e riuscire comunque a proseguire la corsa.

Il concerto dell'anno scorso a Lucca è stato il più lungo nella storia della band ad oggi…
Davvero?! Wow… Quel concerto è stato grandioso!

È anche stato scelto per il cofanetto Europe 2009. Cosa ti ricordi di quella serata?
Ci siamo divertiti tantissimo quella sera. È difficile ricordare, ci siamo lasciati trasportare, non eravamo padroni di noi stessi. Quando tutto è così speciale senti che non c'è bisogno di fare nulla. Tutto è venuto naturale ed è stato come volare. Ricordo la piazza, la statua, le persone sedute sulla statua e intorno, ricordo l'energia. Tutto era favorevole, è stata davvero una bella serata.

Si è appena concluso il decennio. Quali sono, secondo te, gli artisti che hanno lasciato l'impronta più profonda nella musica di questi dieci anni?
È difficile… immagino siano i Radiohead. E forse Jay Z. Non sono molto informato sulle cose che succedono fuori. Se fosse per me dovrebbe essere Danny Barnes. In un mondo ideale Danny Barnes andrebbe alla grande! Ma ci sono molti bravi artisti, ottime band e così tanta buona musica.